Miracoli della visione

Nel nostro immaginario è piuttosto alle visioni – intese come fenomeni straordinari e di solito irripetibili – che si associa l’idea di miracolo. Non tanto alla “visione” come processo fisiologico e psicologico, che noi collochiamo invece nel dominio della scienza, e dunque tra i fenomeni ripetibili e verificabili. Anche nell’ambito della visione (in questa seconda accezione) esistono però fenomeni sorprendenti e singolari, “prodigi” tali da porre a volte il dato percettivo in apparente contrasto con la realtà fisica. Non è un caso infatti se, nel corso della storia, gli aspetti stupefacenti della visione hanno costituito una parte importante della cosiddetta “magia naturale”, quella branca della scienza che si sforzava di riprodurre fenomeni sorprendenti del mondo naturale, cercandone una spiegazione al di fuori dell’intervento di potenze angeliche o demoniache.

A differenza di quanto avviene per le visioni miracolose, i fenomeni sorprendenti dell’ambito visivo naturale non si associano di solito a luoghi o occasioni particolari, e tendono invece a riprodursi costantemente in ogni luogo, tutte le volte che si verifichino certe condizioni. Non si creano così  per questi tipi di “miracoli” quei luoghi privilegiati, destinati a divenire siti di pellegrinaggio, con la costruzione di chiese, templi o altri monumenti di commemorazione e culto.

Da questo punto di vista è un po’ speciale il fenomeno visivo su cui vorremmo ora soffermarci, un fenomeno che appartiene certo al dominio della scienza, e solo in senso traslato e metaforico può rientrare all’ambito degli eventi miracolosi, e che è però associato a un luogo religioso, un’antica e bella chiesa pisana, San Michele degli Scalzi.

Come per alcuni miracoli della cristianità, il “prodigio” di questa chiesa – nell’accezione puramente metaforica del termine – riguarda una bellissima croce medievale dipinta, a tempera e foglia d’oro, collocata nel catino dell’abside. Non la croce in senso stretto però, ma l’ombra che essa proietta sulla concavità dell’abside, illuminata com’è da una fonte luminosa posta in basso dietro l’altare. L’ombra si disegna scura e ingrandita in alto, sull’incavo della superficie absidale, attirando lo sguardo dei fedeli e dei visitatori (e contribuendo poi a indirizzare la loro attenzione sulla superficie dolcemente policroma della croce).

Il “miracolo” è nel fatto che l’ombra, pur disegnandosi sulla superficie concava del catino absidale, appare di solito convessa, cioè aggettante verso l’osservatore nella sua parte centrale, con le estremità dei bracci trasversi sfuggenti in lontananza. Essa dovrebbe invece apparirci incavata come la superficie sulla quale si disegna, con gli elementi trasversali curvi in avanti, come braccia tese verso il fedele.

Il fenomeno è davvero marcato anche se, come spesso accade con altre sorprendenti caratteristiche dei meccanismi percettivi, è necessario avere una spiccata sensibilità per coglierlo con immediatezza. La convessità illusiva della croce risalta con particolare evidenza e forza di suggestione osservando l’abside da una certa distanza, ed è ben visibile anche nelle riproduzioni fotografiche (Fig. 1, a sinistra).

A sinistra: la croce dipinta di San Michele degli Scalzi e la sua ombra sulla superficie dell’abside, viste dal fondo della navata. L’ombra della croce tende ad apparire convessa verso l’osservatore, a dispetto della concavità della superficie absidale sulla quale si disegna. L’effetto non si verifica nella visione da vicino, quando si fa evidente la concavità dell’abside (a destra)

Fig.2 – A sinistra: la croce dipinta di San Michele degli Scalzi e la sua ombra sulla superficie dell’abside, viste dal fondo della navata. L’ombra della croce tende ad apparire convessa verso l’osservatore, a dispetto della concavità della superficie absidale sulla quale si disegna. L’effetto non si verifica nella visione da vicino, quando si fa evidente la concavità dell’abside (a destra)

Avanzando lungo la navata l’effetto si fa più incerto e, a un certo punto, l’apparenza fluttua tra convessità e concavità (quest’ultima corrispondente alla realtà fisica della forma dell’abside). L’osservatore può allora determinare l’una o l’altra apparenza, facendo ricorso a uno sforzo percettivo più o meno intenso. Da distanze molto ravvicinate, e in particolare per visioni fortemente angolate (quelle in cui la struttura tridimensionale dell’abside è percepita con maggiore evidenza), prevale nettamente l’aspetto concavo (quello cioè corrispondente al dato reale) e diviene quasi impossibile, a dispetto di ogni sforzo percettivo, arrivare a un visione convessa dell’ombra.

Per cercare di capire il  fenomeno dell’ombra dobbiamo riflettere sulle difficoltà che il sistema visivo si trova ad affrontare nel tentativo di cogliere, a partire dalle immagini ottiche che si formano sulla nostra retina, informazioni utili sulla realtà fisica del mondo attorno a noi. Prima ancora di domandarci perché vediamo una croce convessa invece che concava, dovremmo chiederci perché la nostra percezione coglie una croce dove c’è invece un’immagine caratterizzata da un’accentuata curvatura nel suo sviluppo orizzontale (e quindi senza stretta corrispondenza con la forma della croce).

Il problema è che tutte le immagini visive sono incerte e potenzialmente ambigue come rappresentazioni del reale, e questo vale in particolare – ma non solo – per gli elementi di tridimensionalità dello spazio che ci circonda. Le difficoltà sono più marcate per gli oggetti visti in lontananza, dal momento che, con l’aumentare della distanza, diventano via via meno rilevanti altri indizi, e in particolare quelli stereoscopici fornitici dalla visione binoculare (e fondati sulle piccole disparità delle immagini dello stesso oggetto nei due occhi). Si può dire che – oltre le poche decine di metri – le sole indicazioni alla tridimensionalità degli oggetti sono indirette e basate unicamente sull’aspetto bidimensionale dell’immagine (come in una fedele riproduzione fotografica). A fornirci allora indizi sulla terza dimensione, sulla grandezza e distanza degli oggetti osservati, entrano in gioco elementi come il chiaroscuro, le variazioni di nitidezza, luminosità, contrasto e colore delle immagini a distanza – la cosiddetta prospettiva aerea.

Questi indizi contribuiscono in modo significativo alla nostra percezione, in rapporto alla nostra pregressa esperienza visiva (e non solo visiva) del mondo, secondo un processo che nell’Ottocento Hermann Helmholtz aveva indicato con l’espressione unbewusste Schluss (inferenza inconscia), e secondo leggi percettive caratterizzate poi in dettaglio dagli psicologi della Gestalt. Gli indizi visivi sono però incerti e possono tradirci nel nostro tentativo di risolvere, consapevolmente o meno, l’ambiguità delle immagini. È proprio giocando su di essi che gli studiosi della visione mettono di solito a punto alcuni dei loro impressionanti apparati illusivi (si pensi per esempio alla camera di Ames, nella quale due persone o oggetti della stessa grandezza, se collocati opportunamente, vengono percepiti come aventi dimensioni molto diverse).

Tra gli indizi più utili per la percezione  monoculare della profondità vi è il chiaroscuro e, non a caso, esso è – insieme alla prospettiva geometrica – la tecnica figurativa più sfruttata dai pittori per creare l’illusione della tridimensionalità. Galileo, che era ben consapevole dell’ambiguità delle immagini visive (e al tempo stesso capace di mettere in atto gli accorgimenti più utili a decifrarle),  riteneva che il chiaroscuro fosse l’unico elemento in grado di dare l’impressione della profondità; e che, nel caso di una statua, per annullarne l’apparenza tridimensionale, bastasse scurire dove essa, per il gioco di ombra e luce, appariva più chiara (e viceversa). La cosa però è vera solo se la statua è osservata da lontano, in ragione dei meccanismi stereoscopici binoculari che operano nella visione ravvicinata e che erano ignoti all’epoca di Galileo (essi verranno riconosciuti con chiarezza solo nell’Ottocento). Tanto nelle immagini reali del mondo, quanto nelle riproduzioni artificiali (dove la stereoscopia non può operare), il chiaroscuro è di fatto insufficiente a darci un’indicazione corretta della tridimensionalità ed è spesso potenzialmente ambiguo.

La spiegazione più verosimile dell’illusiva convessità dell’ombra della croce va cercata in una “inferenza inconscia” che, in mancanza di indizi visivi sicuri, il nostro sistema visivo compie per risolvere l’ambiguità concavo-convesso, sulla base di due elementi principali. Da un lato l’esperienza pregressa della forma della croce e il fatto che – nel suo profilo classico, cioè con elementi rettilinei – essa è figurativamente più semplice, dal punto di vista gestaltico, di una figura con bracci curvilinei. Dall’altro il nostro adattamento percettivo a un mondo nel quale la luce naturale (e spesso anche quella artificiale) proviene dall’alto (il sole o una lampada posta sul soffitto).

Il primo di questi elementi fa sì che, quando vediamo una forma simile a una croce (rettilinea), ma con deformazioni curvilinee, tendiamo più o meno inconsapevolmente a correggere gli elementi curvilinei proiettandoli nella terza dimensione dello spazio. Il secondo elemento invece fa sì che, in presenza di immagini ambigue (nel senso dello sviluppo tridimensionale dell’oggetto a cui si riferiscono), noi tendiamo ad assumere come più probabile quella corrispondente all’oggetto illuminato dall’alto. Questa inferenza genera una potenziale fallacia quando, come nel caso della nostra ombra, l’illuminazione proviene invece dal basso.

A sinistra: la stessa immagine sferica, diritta (in alto) e rovesciata (in basso) tende ad apparire alla maggior parte degli osservatori come una semisfera convessa in alto e concava in basso. Il rovesciamento dell’immagine della chiesa di San Michele degli Scalzi (a destra) tende a produrre una simile mutazione dell’effetto di profondità nella visione dell’ombra (convessa in alto e concava in basso).

Fig.2 – A sinistra: la stessa immagine sferica, diritta (in alto) e rovesciata (in basso) tende ad apparire alla maggior parte degli osservatori come una semisfera convessa in alto e concava in basso. Il rovesciamento dell’immagine della chiesa di San Michele degli Scalzi (a destra) tende a produrre una simile mutazione dell’effetto di profondità nella visione dell’ombra (convessa in alto e concava in basso).

La spiegazione più verosimile dell’aspetto illusivo dell’ombra proiettata dalla croce è analoga a quella di un noto fenomeno visivo, illustrato nella parte sinistra della figura 2: rovesciando l’immagine di una semisfera illuminata dall’alto, vediamo con sorpresa delinearsi una forma sferica concava, che entra nel muro invece di uscirne.

Anche per l’ombra della nostra chiesa, se – a partire da una foto in cui prevale l’apparenza illusiva della convessità – si ruota l’immagine di 180°, si assiste a una inversione dell’effetto. L’ombra appare allora concava, con i bracci della croce che si protendono verso il fedele. Oltre che nell’immagine fotografica, l’inversione convessità-concavità si verifica anche con l’immagine reale (quella che si percepisce stando nella chiesa), anche se la manovra costringe l’osservatore a contorsioni complicate (oltre che fuor di luogo rispetto alla sacralità dell’ambiente).

L’inversione non si produce con le immagini prese da distanza ravvicinata (sia reali che fotografiche), nelle quali l’aspetto concavo è già evidente nella posizione dritta (per verificarlo, si provi a rovesciare la figura 1, osservandone l’immagine a destra).

Come nel caso di altri effetti illusivi che si producono in condizioni naturali (e tra questi in particolare la cosiddetta “illusione della Luna”, su cui vedi Sapere, aprile 2011), al prodigio della nostra ombra concorrono altri elementi, oltre all’inferenza più o meno inconscia sulla posizione della fonte di luce (che ha comunque un ruolo primario). È possibile infatti che la percezione di convessità sia accentuata dal carattere relativamente concentrato del fascio di luce proiettato sul crocifisso, per cui diventa più luminosa la parte alta dell’abside dove si disegna la croce. È noto infatti, almeno fin dai tempi di Leonardo, che gli oggetti – o le parti di oggetti – più brillanti sembrano più vicini, ed è per questo che i pittori attenuano la luminosità delle immagini che vogliono far apparire lontane (secondo le tecniche della prospettiva aerea).

Forse è bene non addentrarci troppo nell’analisi dei sofisticati meccanismi che permettono al nostro sistema visivo di decifrare i contenuti potenzialmente ambigui delle immagini che giungono al nostro occhio. Approfondendo gli aspetti scientifici perderemmo forse l’incanto di un prodigio visivo che si offre più o meno spontaneo al nostro sguardo.

Suscitando interesse per alcuni elusivi e sorprendenti “miracoli” della visione, ci auguriamo che le nostre belle chiese divengano per i lettori luoghi non solo di pellegrinaggi storico-artistici, oltre che spirituali, ma anche scientifici, come lo sono diventate per noi mentre scrivevamo questo articolo.

Bibliografia

  • PICCOLINO  M. & WADE N. J., «Galileo e i segni dei sensi», Sapere, 56, 2009, pp. 56-63.
  • PICCOLINO M. & WADE N. J.,  «Notturno romano» Sapere 56, 2011, pp. 80-82.
  • PICCOLINO M. & WADE N. J., Insegne ambigue. Percorsi obliqui tra storia, scienza e arte da Galileo a Magritte. ETS, Pisa, 2007
Marco Piccolino
Articolo a cura di Marco Piccolino
Centro di Neuroscienze, Università di Ferrara Autore di libri di storia della scienza

Nicholas J. Wade
Articolo a cura di Nicholas J. Wade
Università di Dundee, Scozia